Spirituale

In questa lezione saranno raccolte e minimamente approfondite alcune questioni, che possiamo ritrovare appuntate in altri nodi del rizoma.
Il problema da affrontare è la presenza dello spirituale all’interno di quella comunicazione visiva che è per eccellenza l’arte, prima che essa svanisca nell’estetica diffusa della postmodernità.
Anzi, ritengo che proprio questa questione aiuti a comprendere meglio ciò che diciamo a proposito della contrapposizione tra comunicazione tout court e l’arte: l’arte è contraria alla comunicazione, poiché il suo obiettivo tradizionale è quello di produrre ininterpretabilità, enigma, mistero, difficoltà. Questa la sfida operata dall’arte, direi ab origine. Se vogliamo, "l’arte comunica" esattamente questa enigmaticità. Questa "incomunicabilità".
Ebbene, per alcuni, proprio questo mistero "rappresenta" lo spirituale, che non si lascia vedere, ma che si lascia intuire dietro il velo della realtà e delle sue immagini.

Ciò che nell’opera d’arte rimane enigmatico, sarebbe, dunque, l’invisibilità dello spirituale: ma lo spirituale appartiene al soggetto o al mondo?
La realtà possiede spiritualità, o essa è sempre e comunque materia amorfa ed informe, che solo la tecnica mette in forma e "illumina di senso"?

Dobbiamo, per seguire, per quanto poco, questo affascinante problema, tuffarci nell’arte, di cui rifare alcuni percorsi.
Come nel costituirsi del rinascimento le idee artistiche di Leonardo, di Raffaello, di Michelangelo erano giunte alla distruzione degli assunti classici da cui avevano preso origine, mettendo in discussione la rappresentabilità oggettiva del reale e della bellezza (il manierismo nasce non in seguito, ma all’interno del pensiero rinascimentale!), così, nel secolo appena trascorso, Kandinskij, Klee, Mondrian, Malevic, che fondano l’arte astratta, oserei dire "mentale", portano alle estreme conseguenze logiche ed operative la coscienza di una limitatezza della ragione a pensare e a rappresentare la dimensione globale della realtà, una realtà che è insieme mondo e sua rappresentazione, oggetto e soggetto, materia e spirito, fisica e trascendenza.
Non dunque su statuti di certezze, ma nella consapevolezza dell’hazard, l’avanguardia, nel momento stesso in cui fonda un sistema espressivo di tipo fortemente "logico-simbolico" e non più esplicitamente "rappresentativo" (il mondo non può più essere detto o rappresentato), dichiara il suo fallimento mondano.

Ogni opera dell’avanguardia attesta l’irresolvibile paradosso di denunciare la fine della parola e della rappresentazione mediante l’uso delle parole e delle rappresentazioni. Ogni opera dell’avanguardia contiene il mondo, la sua indicibilità e la sua dicibilità.

L’avanguardia vive, infatti, fino in fondo la propria utopia di dire comunque e di rappresentare comunque, in piena razionalità, anche l'indicibile e l'irrapresentabile, in una parola la "metafisica" del reale, in una ricerca assoluta, "spirituale", di autenticità e di verità. Ma ciò che si evidenzia all’interno dell’opera, è solo un campo di distruzione (del senso …).

Il grande filosofo dell’estetica moderna, Theodore Adorno, nella sua Ästhetische Teorie, 1970, Teoria estetica, Einaudi, Torino 1975 e 1977, affermava che la caratteristica estetica dell’arte moderna è determinata dalla sua pulsione a sovvertire e ad annullare, sempre e comunque, il significato e la forma dell’opera: "i segni dello sfacelo sono il sigillo di autenticità dell'arte moderna". Questi segni distruttivi non sarebbero riscontrabili solo nella disintegrazione linguistica e formale operata dalle avanguardie, ma anche nella crisi generale della razionalità del pensiero (politico) dell’occidente.

Dell'intera stagione del moderno, quanto meno a partire dall'illuminismo, le avanguardie, cosiddette storiche, rappresentano il punto culminante della massima manifestazione della razionalità, intesa sia come concentrazione implosiva della cultura, sia come crisi e deflagrazione all'esterno di un'enorme energia, che accelererà sempre più fino ai nostri giorni la fatale dissoluzione dell'arte nell'esteticità diffusa della condizione postmoderna.
Una problematica tra le più difficile da seguire dell'intera storia della cultura moderna occidentale è, di fatto, la questione del porsi di una possibile metafisica, vale a dire di una ricerca del valore, che non riconduca necessariamente a Dio: slegare la metafisica del suo complesso divino; questa, un poco, la sua parola d’ordine.

Vi è un'annotazione di Wittgenstein, del 1949, che dice: "Il mio pensiero sull'arte e i valori è ben più disilluso di quanto poteva esserlo il pensiero degli uomini di cento anni fa. E tuttavia ciò non vuol dire che esso sia, per questo, più giusto. Vuol dire solo che in primo piano nel mio spirito vi sono sfaceli che non erano in primo piano per loro" (Pensieri diversi, Adelphi, Milano 1980).
Gli sfaceli a cui Wittgenstein allude non sono soltanto quelli provocati dalle due ultime guerre, ma più generalmente quelli connessi con le cause profonde e critiche che hanno modificato progressivamente e irreversibilmente la cultura politica, economica, scientifica, filosofica ed artistica dell'intera Europa nei primi decenni del secolo.
Eppure, e qui è davvero il momento di dirlo, né Wittgenstein né altri si adoperano per chiarire il motivo essenzialmente politico che ha prodotto da una parte la potenza mondiale dell’Occidente e, dall’altra, la sua responsabilità nell’accelerazione del processo di occidentalizzazione del mondo.

Di quella crisi globale del pensiero europeo Wittgenstein costituisce un punto estremo, ultimo "pensatore negativo" di una tradizione a cui appartengono anche Nietzsche e, in parte, lo stesso Freud, quel Freud che già nel 1915 aveva enunciato: "So per certo che io e i miei amici non vedremo più un tempo felice".
Ritroveremo questa amara riflessione amplificata con ancora maggiore intensità nello straordinario, breve ed enigmatico scritto intitolato Caducità (1915), pensato per essere inserito, emblemeticamente, in una raccolta collettiva di saggi dedicati ad una celebrazione di Goethe, Des Land Goethes: in esso Freud dichiarerà che chi nega essere ormai giunto il tempo della caducità non fa che esprimere un desiderio di realtà privo di alcun valore.

Su questo sfondo di tragica consapevolezza della fine della razionalità occidentale, ma sarebbe più esatto dire "della fine del possibile utilizzo della razionalità", che, di fatto, non riesce a trovare soluzioni globali in termini politici, economici, sociali, emerge il rifugio "psichico" di un centro incorruttibile, sopravvivente al naufragio di ogni altro valore: il rifugio dell’indicibile, dell’inesprimibile, dello spirituale, del "metafisico".
"L'inesprimibile – dirà infatti Wittgenstein - (ciò che mi appare pieno di mistero e che non sono in grado di esprimere) costituisce forse lo sfondo sul quale ciò che ho potuto esprimere acquista significato". "Esiste, beninteso, qualcosa di inesprimibile; esso si mostra - dirà altrove Wittgenstein -, è il mistico".

Problematiche non dissimili attraversano la coscienza artistica delle avanguardie storiche, o, quanto meno, quelle, come abbiamo già sottolineato, più implicate con la tendenza astrattista.
La differenza di lettura e di descrizione del mondo, che distingue così intensamente il pensiero artistico figurativo dei primi decenni del nostro secolo da quello di gran parte dell'ottocento, può essere riassunta nella contrapposizione tra l'occhio e lo sguardo, tra il vedere e il com-prendere: la storia dell'arte moderna è infatti una storia che si può descrivere, soprattutto per quanto riguarda l'ambito di cui qui ci occupiamo, come passaggio da una sorta di stato dell'occhio, condizione obbligata da una visione essenzialmente retinica, che intende il reale come un Augenweide, un "pascolo degli occhi" (secondo una bellissima definizione goethiana), ad una visione intenzionalmente misterica e dunque veggente (usando un termine particolarmente suggestivo e significativamente caro al Joyce del Finnegans Wake): una visione che intende oltrepassare il limite del reale e tentare di cogliere la presenza dell'invisibile, al quale dare forma e mostrarlo sotto specie di simbolo e di icona.
É l'incontro tra fisica del visibile - dell'esterno, dell'esteriore, del mondano - e metafisica dell'invisibile a costituire pertanto il fondamento e la figura ideale dell'arte astratta moderna. Scopo dell'arte, come dirà Adorno, è la conoscenza, il "disvelamento", dentro l'estetica pura della verità; l'opera d'arte vi è concepita come enigma, come un rebus che con il manifestarsi si nasconde: solo ciò che è celato dall'enigma si manifesta.

Il disturbo della metafisica, del mistico, agita non solo la ricettiva dimensione dell'arte, ma anche la filosofia moderna, addirittura della logica: se infatti per la filosofia, in genere, il problema da risolvere è nella logica, per Wittgenstein è invece della logica.
La filosofia wittgensteiniana della logica si scontra non solo con il problema della logica, che è la logica, ma anche, dunque, con il perturbante disturbo di ciò che "sta dietro" di essa e che è causa dell'inesprimibile; da una parte infatti si riconosce che c'è un limite intrinseco al linguaggio ("I limiti del mio linguaggio - afferma perentoriamente Wittgenstein - significano i limiti del mio mondo"), dall'altra ne consegue che, proprio per ciò, non si può non constatare che "i confini del mio mondo non posso tracciarli".
Fin troppo nota è la proposizione che chiude il Tractatus: "Su ciò, di cui non si può parlare, si deve tacere", proposizione che ha dato molto filo da torcere all'intera scuola neopositivistica di Vienna, in seno alla quale si è cercato di formulare, coerentemente con i propri assunti, un'interpretazione in chiave di logica positivistica. L’affermazione di Wittgenstein va invece direttamente avvicinata alla già citata enunciazione della presenza nel mondo di qualcosa di inesprimibile: il mistico. "Il nostro impulso al mistico - ribadirà Wittgenstein nei Quaderni - viene dalla mancata soddisfazione dei nostri desideri da parte della scienza".
É l'arte - dichiarerà altrove Wittgenstein - che permette di integrare questa mancanza, poiché l'opera d'arte è capace di cogliere l'eternità: forse, egli afferma, è proprio la bellezza la figura di questa eternità!

Anish Kapoor, Adam, 1989

Anish Kapoor, Adam, 1989

Or bene, questa preoccupazione filosofica del mistico trova uno sviluppo analogo, nelle sue varianti religiose, spiritualistiche ed esoteriche, in una linea di continuità che congiunge l'arte moderna a quella contemporanea attraverso i territori sia pure complessi del simbolismo ottocentesco, dell'espressionismo, dell'arte astratta, di certe esperienze del cosiddetto informale e specialmente nei suoi esiti, del minimalismo, del concettualismo, e, alla fine, in alcune esperienze attuali, difficilmente per altro classificabili, come il caso di molte opere dell’artista Anish Kapoor, di cui ci siamo già occupati.
Una linea che si incrocia e si scontra con quella segnata dalle poetiche per così dire positivistiche del realismo ottocentesco (in cui per certi aspetti può farsi inserire l'otticità talvolta rasserenante dell'Impressionismo) e del funzionalismo novecentesco, nelle sue varianti costruttivistiche, concretistiche e nihilistiche.
Quale conciliabilità, quale soluzione, tra visione spiritualistica e concezione razionalistica e progettuale: istinto o calcolo? emozione o ragionamento? consonanza tra soggetto ed oggetto, o piuttosto scontro tra io e mondo?
Quale icona riuscirà a mettere in luce (in "figura") la rappresentazione stessa del confine, della soglia, che unisce certo ed incerto, visibile ed invisibile, fisico e metafisico, terreno e spirituale?
É possibile ripercorrere il filo della tradizione moderna di questo tentativo, che, in realtà, costituisce l'essenza stessa, il "problema", di quasi tutta l'arte occidentale "dopo Michelangelo".

É un filo che si dipana, a partire dalla crisi di pensiero insita nella stessa cultura della classicità, attraverso il territorio romantico per giungere, ancor più significativamente, nell'area simbolista francese di Moreau, Puvis de Chavanne, Redon, Gauguin e i Nabis o in quella tedesca e inglese di Füssli, Blake, Friedrich, Martin, Böcklin o Whistler: ma Odilon Redon e William Blake in particolare.
Una tradizione che rivela la persistenza secolare nella cultura e nell'arte occidentale di un ossessivo terrore del nulla, un nulla tanto razionalizzato quanto costantemente esorcizzato e risolto all'interno di uno spiritualismo quasi sempre assai distante da un'effettiva spiritualità religiosa; questa è la questione nodale che si presenta a chi intenda affrontare il tema dello spirituale nell'arte moderna, poiché esso è completamente avulso dal fondamento religioso, comunemente inteso.

La relazione tra spiritualità e astrazione nell'arte moderna è dunque complicata dalla difficoltà di definire cosa è, per il complesso della cultura occidentale specialmente otto e novecentesca, il mistico e l'intera dimensione della questione metafisica: ma quali sono, dunque, i segni mediante cui l'arte ha realizzato i suoi modelli rappresentativi di questo rapporto?
Ad una prima e sintetica ricognizione delle caratteristiche più comuni a tutta l'area storica di pertinenza del fenomeno, che possiamo identificare come nesso spirituale-astratto, sembra possibile individuare la persistenza di almeno cinque modelli ricorrenti; essi sono: l'immaginario cosmico, la geometria (generalmente simbolico-esoterica, riconducibile alle forme predominanti del triangolo, del cerchio e del quadrato), la sinestesia, ovvero la supposta analogia tra diverse forme d'arte, particolarmente tra la musica e la pittura, e più in dettaglio, tra i colori e le note musicali, il simbolismo cromatico, l'ermetismo.
Tutte queste caratteristiche sono addirittura peculiari delle opere simboliste della fine dell'ottocento, anche se dimensionate all'interno di una predominante componente figurativa ancora profondamente radicata nella funzione narrativa e rappresentativa dell'immagine.

La storia più recente di questo itinerario spiritualistico può essere velocemente delineata.
Le idee propugnate dapprima da Victor Cousin, che aveva potuto fondare niente meno che alla Sorbonne, intorno al 1840, una scuola spiritualistica, e quindi da Charles Blanc, la cui Grammaire des arts du dessin (1867) sarà per i simbolisti una sorta di bibbia, saranno in seguito rielaborate e sottoposte ad un notevole approfondimento da parte della famosa Scuola teosofica fondata nel 1875 da Helena P. Blavatsky, un vero e proprio revival delle dottrine rosacrociane.
Tutte queste idee confluiranno alla fine nel grande disegno antroposofico di Rudolf Steiner, colui, come sappiamo, che riprenderà e amplificherà la componente più esoterica e più alchemica del pensiero goethiano in una direzione intransigentemente ermetica.

Con Steiner, la cui sia pure indiretta influenza, all'interno della scuola razionalistica e progettuale della Bauhaus del 1919, su artisti quali Kandinskij, Itten o Schlemmer (il cosiddetto "lato oscuro" del Bauhaus - secondo una famosa definizione di Rykwert) non potrà che provocare il noto e inconciliabile contrasto con le idee positivistiche e socialistiche professate prima da Walter Gropius e poi da Hannes Meyer.
Proprio nell’ambito del Bauhaus, si radicherà il profondo e quasi atavico dissidio esistente tra architetti ed ingegneri da una parte (ma anche tra di essi vi è da sempre un contenzioso aperto, che meriterebbe ulteriori approfondimenti) e gli artisti-pittori, come Kandinskij o Itten o Van Doesburg dall'altra, pressoché tutti coinvolti, come Mondrian (che diventerà membro della Scuola olandese di teosofia nel 1909!), Kupka, Delaunay, Picabia, per annotare i casi più appariscenti, con le idee spiritualistiche ed esoteriche collegate con la teosofia.
Lo stesso dissidio intercorrente tra la poetica suprematista di Malevic e quella produttivistica di Tatlin e di El Lissitzky ne è in parte un'ulteriore conferma; e non dimentichiamo che, per le sue idee e i suoi programmi didattici eccessivamente spiritualistici, Kandinskij sarà obbligato, in un certo qual senso, ad abbandonare, in Russia, la scuola, il Vuchtmas, in cui insegnava.

L'invenzione linguistica dell'astrazione, nelle sue numerose varianti, è dunque strettamente collegata alla tradizione del pensiero ermetico e all'ansia effettivamente spirituale che domina l'epoca, anche nei protagonisti più laici e razionalisti, i quali non tenderanno forse ad affrontare la questione del mistico o del sacro o del religioso, ma certamente non potranno non essere coinvolti nel profondo travaglio culturale di quel tempo, in cui si recitò per l'ultima volta e coralmente l'utopia di un progetto estetico-etico rifondativo di una società diversa e più umana, e in cui, soprattutto, si credette possibile riscoprire il "senso" del mondo.

Il mutamento culturale che avviene tra la stagione delle "apparenze", fondanti l'illusione rappresentativa della pittura ottocentesca, e quella per l'appunto del "senso", determinante l'irruzione dell'astrazione nel novecento, è in effetti una trasformazione radicale delle fondazioni stesse dell'arte, ma anche dei suoi fini.
Alla presenza del fondamento e del soggetto nell'Impressionismo fa riscontro antitetico lo sprofondamento del senso e del soggetto nell'Espressionismo.
Per comprendere completamente tale "catastrofe", e dunque per una possibile rifondazione di una critica dell'avanguardia, dovremmo considerare come pregiudiziali tre condizioni: la necessità di fare ricorso all'ermeneutica, la comprensione della dismisura come unica rappresentazione possibile dell'invisibile, l'accettazione della realtà dell'icona.
In modo magistrale ne parla, in un capitolo di Icone della Legge (Adelphi, Milano 1985), Massimo Cacciari, il quale mette in luce i vari tentativi fatti dagli artisti astratti per raffigurare questa inscindibilità dell'invisibile dal visibile, un invisibile che non si cela nell'assoluto silenzio, ma che può essere "immaginato" in quanto esso stesso si offre come immagine: la sua inafferrabilità è riscattata infatti proprio da questo nostro parlarne, da questo nostro immaginare e dunque dall'essere riusciti a farcene interiormente una figura, in quanto parola, concetto e immagine "abitano insieme" nella polifonia complessa del pensiero.
Un pensiero che tuttavia deve fare i conti con l'enorme difficoltà di tradurre la figura in rappresentazione, in proposizione, in comunicazione: in una parola, in arte!

Non dunque come pensare l'invisibile e l'assoluto, quanto come rappresentare questo pensiero: con quali segni, oppure con quali simboli.
Questa è, alla fine, la nodale questione.

Quali segni ci dicono dunque di questa immensa "difficoltà" e come poi, comunque, comprenderli, come interpretarli?
Non tuttavia i segni, ma i simboli - sostiene Cacciari - permettono di evidenziare la figura di tale problema, che è il problema dell'inadeguatezza dell'opera rispetto all'incommensurabilità dell'Essere: questi solo "simbolicamente" parla.
Mai come in questo caso sarebbe quindi più necessario il ricorso all'ermeneutica per ricomprendere il senso, per cercare di rilegare il simbolo al suo riferimento: poiché non l'uomo foggia - in questa lezione cacciariana - il linguaggio per denominare e dominare le cose, ma le cose e l'Essere si manifestano attraverso il linguaggio.

Se questa concezione è accettata, dobbiamo abbandonare ogni semiotica, ogni teoria dei segni, e non rimane altro che la passionale continua interrogazione dell'ermeneutica, dove si ascolta, come veggenti, parole che preesisterebbero alle convenzioni discorsive dell'uomo.
Quando Cacciari afferma che è tempo di sciogliere ogni riserva e di giungere a cogliere nell'arte astratta una "costante intenzione metafisica", che si esprime attraverso la raffigurazione dell'icona, pone in essere una questione che non è più solo teologica, ma anche e fondamentalmente critica.
Nella logica metafisica dell'icona, Cacciari tende infatti a conciliare i mondi contrapposti dell'invenzione (il "mero segno") e della tradizione (la "sophia"): nell'opera astratta di Kandinskij, Klee, Malevic, Mondrian, Cacciari vi scorge una compresenza pacificata di rivoluzionaria novità formale e di costante tradizione del valore e del significato.
Una pacificazione ottenuta grazie a quel "cuore spirituale" che fa vivere tali opere dentro il duplice territorio della fisica e della metafisica, un'interpretazione questa che si deve far risalire direttamente a Pavel Florenskij (di cui si vedano, quanto meno, La colonna e il fondamento della verità, 1914, a cura di Elémire Zolla e P. Modesto, Milano 1974; La prospettiva rovesciata e altri scritti, 1917/18, introduzione a cura di Nicoletta Misler, Casa del Libro, Roma 1983).

Per Florenskij l'icona contemporanea, come per esempio il celebre Quadrato nero su fondo bianco di Malevic, testimonia della possibile soluzione della rappresentazione dell'invisibile, proprio in quanto "la forma del visibile diviene il complesso delle tracce, dei percorsi, dei segni, che l'invisibile produce traendo a sé il visibile".
Il significato teologico dell'icona, quindi, s'incontra con quello spirituale dell'arte e verrebbe a coincidere storicamente, al di là di ridicole teosofie, dentro l'interpretazione filosofica della religio: poiché, per Cacciari, su questo tema necessariamente chiamato in causa, non si dà dubbio alcuno sull'esistenza dell'altro mondo e del Dio accanto e di fronte a questo mondo e a questo "uomo".

L'icona, proprio su questi postulati di fede, non solo mostra, ma testimonia tale doppia verità, una verità che contiene il suo "opposto": la sua cruciale negazione.
L'inconciliabilità dei "tempi" che queste diverse dimensioni pretendono è figura, dunque, centrale dell'icona: eternità ed istante, infinito e finito, assoluto e particolare, idea ed esperienza.
É immergendoci nell'esperienza del mondo che la teologia si converte in fisica, in pensiero einsteiniano: l'invisibile del continuum a quattro dimensioni dello spazio posteuclideo "irrompe" nel tempo quotidiano delle cose e dello stesso nostro modo di interrogarle e di rappresentarle.
Nella nostra ansia di ricercare un ritmo, una misura, tra finito ed infinito, non possiamo che abbandonarci alla considerazione che solo l'invisibile sembra alla fine l'unica realtà possibile, in quanto assoluta dal mondo: invisibilità del tempo il quale non è nato con il nostro universo, ma che addirittura - come insegna lo scienziato Ilya Prigogine - precede l'esistenza stessa (La nascita del tempo, Theoria, Napoli 1988).
Questa invisibilità appare "possibile" solo alla matematica e all'arte, essendo linguaggi che parlano di dimensioni non effettivamente visibili, non effettivamente discorsibili!
L'infinito non è così misterioso come appare, afferma infatti Wittgenstein; basta infatti intenderci sulla scelta del nostro infinito, se quello contrapposto positivamente dalla religione cristiana alla finitezza del mondo e della terrena esistenza, tanto da identificarlo con Dio, se quello definito dal pensiero scientifico come una categoria assai ampia d'uso speculativo, o se, infine, quello trasformato in allegorie e figure dall'interpretazione poetica!

Tutto il nostro ragionare ruota, alla fine, intorno ad un punto conclusivo: la questione del limite tra il noto e l'ignoto. É l'incontro tra fisica del visibile - dell'esterno, dell'esteriore, del mondano - e metafisica dell'invisibile – dell’interiore, dello spirituale, del mistico - a costituire il fondamento e la figura ideale dell'arte moderna. Un tema che ha attraversato l'intera storia della letteratura e dell'arte dai suoi esordi omerici. L'ignoto può dunque e in che modo e per chi trasformarsi in noto?
Un romanzo di Daniele Del Giudice, Atlante Occidentale (Einaudi, Torino 1985), riproponeva, proprio negli anni in cui la cultura della modernità maggiormente rifletteva sulla sua crisi, una riflessione su quest’antico, occidentale, interrogativo. Esso si presenta come un'indagine sui confini dell'arte e della scienza, e, indirettamente, sui confini stessi tra l'arte e la scienza, due culture tradizionalmente contrapposte, una che tende a rifiutare la razionalizzazione della creatività, l'altra che tende ad escludere dalla ragione tutto ciò che è estetico.
Tutto il racconto, infatti, non è che un pretesto per un'indagine sui confini dell'arte e della scienza, e, dunque, sui confini stessi del sapere: un'interrogazione che ha statuto e storicità solo tuttavia se la commisuriamo dentro la logica della tradizione razionalistica del moderno, vale a dire prima della coscienza postmoderna della fine definitiva dei grandi e illusivi racconti della scienza, della storia, della politica.
La trama ruota attorno all'espediente di un incontro e della conseguente amicizia tra uno scienziato (in cui si adombra la figura di Carlo Rubbia) e lo scrittore (dopo lo scampato pericolo di una collisione aerea tra i due velivoli guidati dai protagonisti: le avanguardie sono aeree …), le cui affinità elettive si rinsaldano ulteriormente nel riconoscimento che, nel proprio ruolo, ognuno dei due ha identificato la presenza drammatica di una soglia "invalicabile" dei propri saperi, coincidente con il limite a cui la specifica "scienza" è pervenuta: da una parte il confine "ultimo" della dimensione subatomica, dall'altra il confine semantico e rappresentativo (il limite "logico"...) della parola.
L'oltrepassamento della soglia è per ambedue i saperi, quello scientifico e quello artistico, un "salto nel vuoto". Ma questo "salto nel vuoto", o, per meglio dire, nella dimensione del "non ancora noto", e che solo la fantasia poetica definisce più equivocamente dell’"ignoto"), è comunque sempre un volo controllato mediante collaudati strumenti di guida e d’orientamento: questo il "trucco" di ogni avanguardia che si muova tra le "scienze esatte" e le "scienze dello spirito", nei cosiddetti frattali "passaggi a nord-ovest" - come direbbe Michel Serres (la citazione, a questo proposito del bel saggio di Serres s’impone: Passaggio a nord-ovest, Hermès V (1980), introduzione di Mario Porro, Pratiche, Parma 1984) -, in altre parole tra l’illusione della certezza e della verità e la dura esperienza dell’illusione mondana.
Ogni sapere appare perennemente impegnato, in gara con se stesso, a spostare sempre in avanti il suo confine relativo dentro il "non ancora conosciuto" della scienza, dentro il "non ancora realizzato" dell'arte: anche se ciò comporta l’incontro fatale con altri percorsi frattali, che, da diverse contrade, recano all'incrocio, al crocevia, all'experimentum crucis, il cui segno è per l'appunto quella croce che è simbolo matematico dell'incognita!

A re-creation of creation

A re-creation of creation

A re-creation of creation

A re-creation of creation

A re-creation of creation

A re-creation of creation

Viaggi della conoscenza e dei saperi scientifici ed artistici, dunque, sul bordo frattalico che divide (?) il territorio "falsificabile" della scienza e quello "infalsificabile" dell’arte, che continuamente riproduce se stessa mediante azioni irripetibili!
Si tratta di un viaggio difficile, sul bordo. Sul confine. Lungo il confine!
Il manuale di viaggio chiama in causa la questione epistemologica della crisi della scienza, crisi che si manifesta come chiusura al mondo, blindatura dei suoi forzieri, segretezza delle sue procedure, privatizzazione della ricerca, indifferenza del/al sociale. Una crisi irresolvibile, che può essere intesa come perdita al mondo del sapere scientifico, positivo, positivista, anti-magico, anti-esoterico, anti-alchemico … Ma un mondo che non vuole, a sua volta, sapere, perché "sapere" significa innanzitutto "pensare", riflettere, analizzare e progettare per quest’unico tempo terreno.
La necessità dello spirituale, nella sua declinazione più misera, nasce proprio da questo atteggiamento di rifiuto del pensiero, non del pensiero razionalistico, ma tout court del pensiero, dell’immensa fatica del pensiero, in un’epoca che, in crisi del valore in sé, ricerca solo i valori del sé, dell’in-sé: dell’individuo, che è cosa ben diversa dalla ricerca di potenziamento dell’io, dell’io come soggetto.
Ed è proprio all'interno di questo tempo consegnato alla tecnica, che, a sua volta, è portatrice di segrete alleanze e di ignoti, ma intuibili, fini, che tendono a produrre un mondo perfettamente risolto dalla tecnica, perfettamente e compiutamente artefatto, che "i feticci risorgono in massa, là dove meno ci se li aspetta. É il ritorno del religioso, il ritorno del sacro, come si dice, del rimosso" (M. Serres, cit, p. 176).

L'ottava edizione della mostra internazionale d'arte, Documenta di Kassel, del 1987, testimonia in maniera esemplare, per la prima volta in maniera sistematica, la situazione di profonda impasse della cultura occidentale, proprio in quanto essa sembra voler concorrere, in maniera complice, a delegittimare ogni possibilità di spostamento in avanti della ricerca umana dentro la dimensione necessaria dell'utopia.
Un'utopia concepita come condizione fondamentale per la sopravvivenza stessa della "civiltà" e che utilizza un processo di sapere che riconduce la scienza ad una funzione ideale di crisi, di critica, di messa in discussione dell’esistente e del futuro.
Solo in questa maniera sembrerebbe possibile ipotizzare il superamento dell'attuale condizione postmoderna, caratterizzata da una predominante tendenza riduttivistica della complessità del reale e della storia.

Tranne rare eccezioni, la risposta degli artisti all'appello utopistico lanciato da Documenta può dirsi fallimentare, in quanto non sembra esserci stata risposta alla questione che, sotto il profilo etico e morale, può configurarsi come richiesta epocale di uno spostamento dell'arte verso i territori eterogenei, "politecnici" e "polisemici" della complessità.
Predomina, ieri ed ancor più oggi, un'idea di arte ancora legata all'atto imperscrutabile di una creatività senza progetto, che non intende assumersi il rischio e la responsabilità di pensare l'opera in relazione al mondo.
Questa – io ritengo – è l’unica condizione di scelta, che potremmo tranquillamente accettare di definire, laicamente, spirituale.
Di nuovo, quindi, la questione di una scelta drammatica, ma necessaria, tra contrapposte direzioni dell'arte: der Weg nach Innen, la strada verso l'interno, il soggettivo, l'interiorità, oppure der Weg nach Aussen, la strada verso l'esterno, l'esteriore, il progetto per/del sociale, del rimosso, del mondo terreno dimenticato. In questione è il decidersi nel mondo o dal mondo.

La logica (anche delle scelte) è tuttavia funzy, sfumata!

In mezzo, tra queste due direzioni, il terreno potentemente ambiguo dell’inespressività, del raggelamento pop, della consegna al medium di un’azione di cattura desoggettivizzata, ma anche di una preveggenza estetica della macchina e di un’intelligenza sensibile, che, non essendo più umana, ma essenzialmente tecnica, non raccoglie più il grido d’aiuto del mondo, di questo mondo, essendo tutta intenta a fondarne un altro.

Nel 1999, due scienziati informatici, Ray Kurzweil (l’inventore, tra l’altro, della macchina di lettura per ciechi) e Hans Moravec (un pioniere della ricerca sui robot mobili), pubblicano, indipendentemente l’uno dall’altro, due libri di fondamentale importanza, "The Age of Spiritual Machine: When Computer Exceed Human Intelligence" e "Robot: Mere Machine to Transcendent Mind", che sostengono che, in questo secolo, la tecnologia computazionale supererà l’uomo, sia intellettualmente sia spiritualmente.

Ray Kurzweil, The age of spiritual machines, 1999

Ray Kurzweil, The age of spiritual machines, 1999

La prospettiva aperta da questi studi, che, per altro, saranno seguiti da molte altre ricerche parallele, e che troveranno un punto di confronto molto approfondito in un ormai famoso convegno (nell’aprile del 2000), presieduto da Douglas Hofstadter (professore di scienze cognitive all’Università di Indiana, autore del celeberrimo "Gödel, Escher, Bach", "Fluid Concepts and Creative Analogies", 1979; tr. it. Gödel, Escher, Bach: un’Eterna Ghirlanda Brillante, Adelphi, Milano 1984, 1990) è, di fatto, talmente preoccupante che siamo indotti a recepire il messaggio come se appartenesse ad un’invenzione incredibile della fiction.
Le previsioni, a cui noi non vogliamo assolutamente credere …, indicano nel 2009 il momento in cui, così procedendo la ricerca tecnologica, i computer da 1000 dollari riusciranno a fornire un milione di operazioni al secondo e, nel giro di un altro decennio, si giungerà alla soglia in cui la capacità computazionale sarà allo stesso livello di operazioni, come quantità e qualità, del cervello umano.
Il raggiungimento di queste prestazioni produrrà una modificazione nella struttura intelligente del computer, il quale potrà iniziare a correggersi, ad autoimplementarsi e a "ragionare". Il passo verso la coscienza sarà veloce. E la coscienza è fondamentalmente sensibilità e attenzione verso il significato non solamente operativo delle azioni. Ciò che non appartiene al puro mettersi in funzione dell’intelligenza per qualche fine utilitaristico appartiene alla sfera di ciò che intuiamo essere al di là del fisico e del materiale. Qualcuno lo chiama dominio metafisico dello spirituale.

S versus S: soft versus spiritual o, non piuttosto, in queste previsioni paurose, soft is spiritual?

Un’illuminante intervista a Kurzweil: http://www.fearlessbooks.com/FeatureLine12.html.

Se volete introdurre nel vostro computer uno screensaver che utilizza l’intelligenza artificiale per creare immagini continuamente modificate ed originali andate alla home page dello stesso Kurzweil: http://www.kurzweiltech.com/ktiflash.html;
http://www.kurzweilcyberart.com/ testimonia, infatti, la propensione… artistica dello scienziato.