Dolly

Se è vero che la parola può essere considerata una sorte di crisalide, che contiene al suo interno l’essenza ultima e nascosta del suo significato, il termine pupilla, che indica la parte dell’occhio maggiormente esposta ai riflessi …, contiene una pupa, una larva!

Giuseppe Penone, Rovesciare i propri occhi, 1970

Giuseppe Penone, Rovesciare i propri occhi, 1970

Il termine pupa, infatti, non indica solo quel momento della metamorfosi delle farfalle, in cui l’insetto è ancora racchiuso in una crisalide, ma anche l’immagine stessa, che si forma, minuscola, nella pupilla, immagine di un pupazzo, per l’appunto, quale noi siamo all’interno dell’occhio dell’altro. Quando guardiamo negli occhi qualcuno (atteggiamento di sfida bellicosa o amorosa, con qualche affinità …), effettivamente vediamo la pupa che noi siamo! Vediamo quanto poco contiamo. La nostra effettiva misura è data da questo possibile controllo allo specchio biologico dell’altro di fronte a noi. La distanza ravvicinata mette a fuoco, non sempre avvicina.
La comunicazione visiva si fissa, dunque, prima ancora che sulla retina, sui riflessi pupillari! Noi ci vediamo riflessi nelle pupille di chi ci sta guardando.
Nella pupilla dell’altro, noi siamo pupe! Se ci pensiamo bene, dal punto di vista etimologico, è la pupilla che prende nome dalla pupa! È la cosa che viene denominata dal suo fantasma!
La pupilla rimanda, dunque, il riguardante a se stesso, essendo da essa catturato e reso immagine. Forse il segreto del comunicare risiede proprio nella presenza o meno di un riflesso nell’occhio dell’altro! Ma tenendo presente che tale riflesso è il nostro: pensiamo di aver acceso una luce ed invece ci siamo solo bruciati in uno sguardo.
L’occhio produce doppi! In ogni occhio che guardiamo compare, dunque, un film, interpretato da noi stessi, che ci agitiamo fremendo sul palcoscenico della vita e dell’occhio dell’altro!
Il gioco, che a vari livelli di … coinvolgimento e di funzioni, ci segue dalla nascita alla morte, prende anche la forma del simulacro, della riproduzione in scala ridotta, del reale, corpi umani, animali, ibridi …: per questo motivo il pupazzo, la bambola, nascono da un riflesso dell’occhio, un riflesso che, enunciando il desiderio, denuncia la riduzione del corpo a feticcio, a doppio, a larva del reale.
Il cinema, così come, prima ancora, la letteratura, di questi corpi in riduzione ha fatto raccolta, inseguendone l’evoluzione da giocattoli ad auto-mobili! I Pinocchi son virologici!

La bambola di carne.

Nessuna bambola è innocente. Essa comunica visivamente (la forma del) desiderio! L’artificiale corpo umanoide si nasconde sotto le coperte di carcerati, marinai e fanciulle. Il suo carattere antropomorfico svela la psicopatologia del soggetto. Manipolabile, articolabile, trasformabile, adattabile, animabile, la sua funzione è quella di colmare il vuoto tra lo sguardo e la mano, tra il desiderio e il possesso, tra il sé e l’altro. Corpo che si piega ad ogni richiesta, ma dotato di una vita effettiva, entità virologica, che genera un suo mondo, riproducendo all’infinito la sua specie, nella varietà dei suoi modelli stilistici, arredativi, mondani, scenici e sessuali.

Kid

Oggetto di moda, ma anche induttore di mode, barberizza anoressiche teen-agers e muscolizza giovani vitaminosi. Dotato di ubiquità e di doppia natura, collega il cinema alla vita, l’infanzia alla pornografia, il voyeurismo possessivo alla violenza distruttiva.
La bambola va violentata, ma è essa stessa violenta. S’introduce, assassina, in molti film (celebri quelli di Tom Holland e di John Lafia ) e nella stessa vita reale, diventando un’effettiva minaccia alla quiete domestica della middle class americana, trasformandosi da oggetto amato in organismo animato, come Snacktime Kid, il mostro cannibale del mondo dei toys.
Ritirato dal mercato, Snacktime Kid, un bambolotto deforme per la sua iperreale somiglianza a un bambino deforme, capace di divorare patatine di plastica, aveva effettivamente iniziato a mangiare bambini (un certo numero di giovani utilizzatori avevano avvicinato un po’ troppo i loro capelli o le loro vesti alla fauci cannibalesche della bambola animata). Questo gioco della multinazionale Mattel segue di circa dieci anni un’altra terribile invenzione ludica, la Cabbage Patch Doll, la “bambola col certificato di nascita”, sempre diversa e dunque dotata di personalità differenti, vera “creatura”, opera d’arte, auratica e originale in ogni sua nuova versione, dello scultore Xavier Roberts. Vera come una vera (?) creatura, Cabbage Patch doveva essere adottata con tanto di nome e cognome e atto di nascita: tanto brutta da ingenerare la leggenda metropolitana di essere stata messa in commercio per abituare la gente all’immagine che avrebbero avuto i superstiti dopo la prossima guerra nucleare.

Barbie.

I due miliardi di persone, che vedono regolarmente ogni giorno Baywatch, identificano in tutto il mondo il medesimo “tipo” antropologico femminile, sgargiante e colorato, ossigenato e depilato, magro e con i seni a palla da tennis . Un vero e proprio effetto speciale vivente, che stabilisce un modello di corpo sempre-giovane e sempre-bello. Barbie è un’ariana (nonostante alcune sue recenti variabili in versione nera, ispanica e orientale) e diffonde nel mondo una prototipia talmente precisa da far venire il sospetto che essa appartenga ad un lungo progetto di occidentalizzazione del pianeta e forse del cosmo.

Barbie

Barbie

Barbie

Barbie

Bigjim

Bigjim

Bigjim

Bigjim

È importante ricordare che l’archetipo da cui Barbie discende era una pornobambola tedesca in costume da bagno, di nome Lilli, una ninfa ossigenata alta trenta centimetri, che veniva venduta nelle tabaccherie ad acquirenti maschili fondamentalmente pedofilo-feticisti.
Barbie, la bambola liscia e glabra, ostenta mostruosi difetti corporei: il seno, senza capezzoli, ha una circonferenza due volte maggiore del giro vita, le gambe sono due volte più lunghe del tronco, i piedi sono così minuti da non reggerla (anche se dal 1998 la Mattel ha deciso alcune modifiche di stabilità e di forma).
Distribuita in 140 paesi del mondo, è assemblata da 11 mila contadini cinesi in due fabbriche della provincia di Guangdong ed è venduta nell’intero pianeta con un ritmo di un pezzo ogni due secondi. Produce un indotto merceologico gigantesco, tra accessori, mobili e soprammobili, animali domestici, villette, patii e piscine… Un vero e proprio market in miniatura, ma con le stesse modalità di uno reale.
La filosofia della Barbie, come quella del suo compagno Big Jim, s’inscrive all’interno di una visione apocalittica del mondo, una visione per la quale la modellazione del corpo umano attuale sta prendendo forma dalle sue stesse creature fantastiche.
A ricordarci l’orrore della Barbie, la sequenza finale di Eyes Wide Shut, l’ultimo film di Kubrick. Ritornati, dopo l’avventura fantastico-erotica da loro vissuta, nel mondo reale, o, per meglio dire, riprecipitati nell’altro luogo comune del kitsch, che è il clima natalizio, gli sposi-genitori portano la loro bambina orribile, una sorta di bambola di porcellana norimberghese, in un negozio di giocattoli, per capire quali son le sue aspettative di regalo.
Qui, in questo luogo del desiderio, in cui la realtà delle merci è sublimata da fantasie erotiche ancora inconsapevoli – luogo, per altro, che ripete in maniera simbolica l’altro negozio, quello delle maschere in cui il protagonista aveva visto giocare con una bambina due travestiti giapponesi e forse lo stesso padre di costei - , il mondo sessuale degli adulti trova specularità in quello infantile, il sogno erotico quasi realizzato si specchia in quello in potenza della bambina.
Gli stereotipi sono gli stessi, varia solo la scala di proporzione. Il marinaio concupito dalla madre, la donna nuda che sale le scale, vista dal padre, sono modelli non dissimili dai tre oggetti-merce-feticci che dominano psicologicamente la sequenza finale del film: il gigantesco orsacchiotto di peluche, la nera carrozzina funerea, la Barbie, che la bambina pretende e che le sarà portata … da Babbo Natale ad aggiungersi alla sua collezione.

Eyes wide shut

Eyes wide shut

Stanley Kubrick, Barry Lyndon

Stanley Kubrick, Barry Lyndon

Bibliografia