Sguardo
Larte moderna non
possiede recinti, vincoli, templi. Essa si esclude da tutto ciò che è il sacro, pur
avendo costantemente presente quello sfondo indicibile e irrapresentabile che è
come diceva Wittgenstein il mistico. Al
religioso, larte moderna contrappone la dimensione
dellinfinitamente aperto, del perfettamente transitabile dallo sguardo e dal corpo.
Essa, infatti, non può che aprirsi alla totale libertà e quindi allo sradicamento di
qualsiasi porta, di qualsiasi confine e di
qualsiasi dogana. Anche se non si libererà mai definitivamente dal suo specifico oppositivo e critico nei riguardi del
mondo: solo il postmoderno dissolverà larte nellestetica, davvero al di là
di ogni residuo confine e di ogni differenza.
Proprio per ciò, la
storia dell'arte moderna può essere riassunta nella contrapposizione tra l'occhio e lo
sguardo, tra il vedere e il comprendere, tra lesteriore e linteriore (nelle
sue diverse declinazioni: lo psichico, il mentale, lo spirituale): è infatti una storia
che si può descrivere come passaggio da una sorta di stato dell'occhio, condizione
obbligata da una visione essenzialmente retinica, che intende il reale come un Augenweide, un "pascolo degli occhi"
(secondo una bella definizione goethiana), ad una visione intenzionalmente misterica e
dunque veggente (usando un termine
particolarmente suggestivo e significativamente caro al Joyce del Finnegans Wake), una visione, uno shining, una brillanza (ein Blitz, un lampo contrapposto allEinblick, lo sguardo), che intende oltrepassare il
limite del reale e tentare di cogliere la presenza dell'invisibile, al quale dare forma e
mostrarlo sotto specie di simbolo e di icona.
É l'incontro tra
fisica del visibile - dell'esterno, dell'esteriore, del mondano - e metafisica
dell'invisibile dellinteriore, dello spirituale, del mistico - a costituire
il fondamento e la figura ideale dell'arte moderna.
Una delle
ultime opere della cosiddetta neo-avanguardia del decennio 1960-70 dedicata al
tema dello sguardo è rappresentata da Rovesciare
i propri occhi (1970) di Giuseppe Penone. Si tratta del ritratto dell'artista, che si
fa fotografare con gli occhi ricoperti da lenti a
contatto specchianti.
L'occhio protetto
dalla lente opaca non può più vedere che l'enorme oscurità che si cela dietro la
capsula rilucente. Rovesciare i propri occhi, per vedere in profondità. Ma il gioco
espresso in quest'opera è ancor più sottile e concettuale: l'occhio ha inglobato la
lente artificiale, la protesi, divenendo mostruoso ibrido di naturalità e artificio; a
questo punto ecco apparire un nuovo riflesso, il sospetto di una luce che non giunge
più all'artista dall'esterno, ma che è lui stesso ad irradiare, visibile a tutti
fuorché a se stesso.
Le
lenti a contatto specchianti coprono liride e la pupilla; indossandole mi rendono
cieco. Poste sullocchio, indicano il punto di divisione e di separazione da ciò che
mi circonda. Sono come la pelle un elemento di confine, linterruzione di un canale
di informazione che usa come medium la luce. La loro caratteristica specchiante fa sì che
linformazione giunta al mio occhio venga riflessa[i].
Lopera di Penone,
pur appartenendo ad unepoca molto lontana dal nostro attuale sentire, apre delle
questioni tuttora importanti: lenigmaticità dellarte, il tema dello sguardo,
il significato metaforico della luce e la vanità della vita.
Resosi cieco,
lartista può finalmente vedere: si riperpetua il mito classico di
Omero, il poeta cieco, perché ha abbandonato il mondo esterno per rifugiarsi per sempre
nellinteriorità, rovesciando gli occhi come sul punto di morire.
Lo sguardo verso
linterno è tuttavia uno sguardo sulla vita, che riattraversa tutto il vissuto,
tutta lesperienza, tutti gli errori della vita.
Contrazione nervosa e contrizione dolorosa, riflessione muscolare e riflessione meditativa, che si manifestano alla fine della vita
e che dovremmo imparare a compiere alla fine dogni giornata, se è vero che ogni
giornata è lunga quanto una vita e la vita è corta come una sola giornata
Quando gli occhi, coperti dalle lenti a contatto
specchianti, riflettono nello spazio le immagini (...),[ii] si dilaziona nel tempo la facoltà di vedere nel
futuro le immagini raccolte nel passato[iii].
Negli occhi doro
di Penone la nostra immagine appare riflessa e distorta, curvata dalla convessità dello
schermo e deformata come se già essa appartenesse al regno degli spettri. Su quegli
schermi doro la luce proietta tutte le immagini che sarebbero penetrate
nellocchio, fermandole sulla parete impenetrabile dello specchio: questi specchi
dorati sono pertanto la metafora analitica del
nostro rapporto con il mondo, rapporto che è sempre indiretto, poiché passa
inesorabilmente attraverso limmagine della nostra immagine, questo Io che noi
vediamo riflesso negli occhi dellaltro e che ci condanna allanalisi
interminabile.
La visione è un pensiero assoggettato a
un certo campo, affermava Merleau-Ponty[iv]. Non si analizzerà mai abbastanza, partendo
da questassunto, ciò che succede quando si guarda unopera darte e, in
modo particolare, un dipinto. Lo spettatore e il soggetto della rappresentazione sono
indissolubilmente legati dallo sguardo.
Esso si scontra con il mostrarsi dellopera: io vedo, ma ciò avviene in quanto loggetto si mostra, e minterroga. E dunque io vedo qualcosa che mi sta scrutando, trasformando lingenuità colpevole di un vedere superficiale in un impegno più complesso, che ci obbliga ad un processo di analisi, di comprensione e di approfondimento. Proprio nulla a che fare con limmediatezza del gusto e con il gusto dellimmediatezza. Ma, al contrario, faticoso oltrepassamento dellapparenza, scorticamento della pelle superficiale dellopera, arrivo alla carne, al vero corpo dellarte.
"Sono gli
osservatori a fare i quadri", sosteneva Duchamp, perché vi sono dentro, vi sono
immersi, attratti dalla domanda che l'opera pone e che l'opera è: tautologia, metafora,
allegoria, simbolo.
Nel campo del vedere,
come indicava lo psicanalista Jacques Lacan, il simbolico, limmaginario e il reale
si annodano inestricabilmente, tanto che non possiamo tirare uno di questi fili senza
trascinare con esso il nodo di tutti i concetti coinvolti e che finalmente giungono al
pettine. Risulta quindi molto difficile separare tra loro queste categorie topologiche,
che costituiscono la parte invisibile, post-retinica dell'opera e, nello stesso tempo,
anche la vera parte relazionale intercorrente tra l'artista e lo spettatore.
La prospettiva dello
sguardo si è rovesciata, l'opera guarda il suo osservatore per coglierlo in fallo. In
ciò la vera "ironia tragica" dell'arte, Infinita distanza di questa
concezione dell'opera darte, come figura insieme potente e indecifrabile, visibile
ed invisibile, "sublime", rispetto alla nostra predominante cultura
dell'immagine, di nuovo fondamentalmente retinica.
René Magritte, Je ne vois pas la
cachée dans la forèt,
1929.
Uninteressantissima
opera, per altro poco nota, di Magritte, Je ne vois
pas la cachée dans la forèt, un montaggio fotografico del 1929, raffigura un corpo
nudo di donna circondato da una cornice di ritratti di artisti surrealisti; tra questi,
Aragon, Breton, Buñuel, Eluard, Magritte, Tanguy, Ernst, Dalì.
Si tratta di
unopera collettiva, e lo si comprende dal fatto che tutti i personaggi hanno deciso
concordemente di farsi ritrarre ad occhi chiusi. Immersi nel proprio pensiero, questi
soggetti si fanno cogliere
nellatteggiamento peculiare dellavanguardia (storica), cioè di chi pretende
di vedere più avanti e prima degli altri perché vede, ad occhi chiusi, ma con la mente
aperta.
L'opera d'arte è,
pertanto, in questa caratteristica concezione moderna, un'opera parzialmente comprensibile
fintanto che ci limitiamo a guardarla: il vero significato dell'opera risiederebbe nella
sua parte invisibile, in quella dimensione a cui è richiamato non il vedere, ma il
pensare, vale a dire la profondità dell'atto riflessivo.
L'opera di Magritte ha, dunque, quasi il valore di
un autoritratto epocale: lartista della modernità non poteva che ritrarsi prima daver esercitato l'atto del vedere.
L'avanguardia moderna, infatti, abbandona l'occhio
per la profondità dello sguardo.
In questo senso tale
avanguardia è ancora debitrice della grande tradizione classica, che crede possibile un
universo di senso da recuperare partendo dal soggetto. Al centro dell'opera appare una
scritta molto indicativa: Je ne vois pas la
cachée dans la forèt, "Non vedo più l'impronta nel bosco".
Di quale impronta si fa
riferimento e perché il cacciatore ha smarrito la sua preda? Il cacciatore ha perso le
tracce della sua preda, perché non è più riuscito a seguirla nei suoi spostamenti
continui, inarrestabili e progressivi: è, fuor di metafora, il mondo quella fiera
imprendibile, quel mondo che lavanguardia voleva mutare e che, invece, per suo conto
ha continuato ad evolvere e ad assorbire larte stessa.
È larte a non
lasciare più impronta di sé. Ecco, allora, la necessità di chiudersi al mondo e
rincorrere la surrealtà del proprio profondo piuttosto che la realtà del proprio
esterno. Il sentiero della ricerca si interrompe, nella crisi della modernità, nella
foresta del senso. Comprendiamo, quindi, e giustifichiamo la coerenza di Breton, il
teorico del surrealismo: liberarsi dalle arti per invischiarsi nel mondo, o, viceversa,
abbandonare il mondo della realtà per inseguire solo la profondità poetica del sogno.
Il tema dello scontro
tra poetica e politica, come per lappunto il padre del Surrealismo, André Breton,
aveva propugnato, caldeggiando una totale adesione alla politica, nasce anchesso da
uno sguardo: uno sguardo sul sociale! Ma questa visione ci porterebbe lontano
Un
tema riproposto provocatoriamente dallinteressante X edizione di Documenta di Kassel
del 1997 e che, in qualche modo, era stato anche evocato dalla VII Mostra Internazionale
di Architettura (2000) di Venezia, avente come titolo Less aesthetics, more ethics!
Non vedo più l'impronta nel bosco, nel
pensiero heideggeriano significa: non vedo più l'origine dell'opera d'arte, la
provenienza della sua essenza.
E'
possibile ancora il viaggio? Il sentiero della ricerca si interrompe, nella crisi della
modernità, nella foresta del senso. E' possibile, dunque, ancora un viaggio dell'arte
attraverso il metodo della avanguardia, attraverso il sistema dell'avanguardia?
Ritengo di no: questi occhi, questi metodi, questi strumenti, si sono chiusi
inesorabilmente per lasciare il posto ad altri mezzi, ad altri sistemi. Le cosiddette
neo-avanguardie hanno, coerentemente con la coscienza della crisi dell'ultima modernità,
messo in forma, soprattutto nell'ambito concettuale e "poveristico", la
rappresentazione dell'ultimo sguardo possibile sull'interiorità.
Questopera
magrittina e comunque collettiva ci permette di avanzare una questione fondamentale e
paradigmatica: oggi, in un'epoca popolata di immagini, quale spazio possiamo ancora
reperire per il nostro immaginario e per la nostra fantasia?
Una sorta di cervello
esteso, il nostro sguardo, che si struttura attraverso complicate reti neuronali, disposte
allipertestualità e al rizoma, circonda lintera periferia del nostro
organismo. Siamo una macchina altamente evoluta, ma pur vedendo circa 180 gradi
dorizzonte tuttattorno a noi, del nostro corpo non vediamo che una parte molto
ridotta e soprattutto non vedremo mai come siamo visti, neppure se ci specchiamo, poiché
lo specchio rimanda di noi unimmagine rovesciata.
Non ci è possibile
vedere al di qua della punta del naso, lintero volto e la testa ci sono preclusi
allo sguardo. Noi viviamo senza saperci. Per questo motivo la scoperta delle proprie
fattezze è stata così importante da determinare il mito di Narciso, il mito che mette in
scena lapparizione dello sguardo che incontra se stesso.
Velázquez, Las Meninas.
Lopera di
Velázquez, Las Meninas, come ha scritto
Foucault in Le parole e le cose, è una macchina
concettuale che mette in scena la rappresentazione: è la rappresentazione stessa della rappresentazione.
La rappresentazione del potere, dal punto di vista dei contenuti storici dellopera,
e, dal punto di vista dei significanti, la rappresentazione del potere dello sguardo, che
innerva in una rete ciò che è visto, ciò che è intravisto, ciò che non è visibile e
ciò che noi (gli spettatori) faremo apparire con un improvviso bagliore di comprensione.
Le figure
di chi vede e di chi è visto si intrecciano strettamente ed ambedue queste condizioni si
sottopongono, a loro volta, al nostro sguardo indagatore. Centro di tale rappresentazione
è, come ben si sa, uno specchio, collocato alle spalle del pittore, e sul quale si
riflettono le immagini della regina Marianna dAustria e del re Filippo IV di Spagna.
I reali non sono in
condizione di poter vedere il loro ritratto pittorico mentre si sta facendo, dal momento
che essi sono al di qua della postazione del cavalletto e della tela, ma possono vedere il
loro aspetto reale, rimandato dallo specchio
situato di fronte a loro. Immagine speculare, assertiva e probante. Ma anche
limmagine sullo specchio è un ritratto!
Fermato istantaneamente per leternità, a cui tende il potere, che è costantemente
onnipresente.
Il potere vede ma non è visibile direttamente! Noi
ne vediamo solo lapparenza, quando essa si degna di mostrarsi. A questa presenza
implacabile del potere Giulio Paolini ha dedicato unopera concettualmente singolare,
Lultimo quadro di Diego Velázquez (1968), ingrandendo unicamente limmagine
fotografica del celebre ritratto dei reali e togliendo attorno ad esso ogni riferimento
contestuale. Il frammento velazquesiano diventa così unopera unitaria e definita.
Il riflesso ha lasciato il posto alla rappresentazione diretta. Il messaggio è chiaro: i
riflessi, liberati dalla loro cornice, si raddrizzano!
Un sistema nervoso comune collega tutti gli
elementi interni ed esterni dellopera, coinvolgendoci ed attraendoci
nellorbita gravitazionale di questo lontano richiamo. Si tratta di riscoprire
linvisibilità presente in questa
rappresentazione: invisibili i monarchi, ma anche altrettanto invisibile il loro ritratto
sul quadro, che ci volge le spalle, rifiutandosi a noi. Rimangono solo le loro effigie
fotografate nella camera oscura dello specchio. Riusciamo, dunque, a vedere
per triangolazioni, per indizi, per percorsi non rettilinei e diretti. Riusciamo a vedere,
come suggerisce Lacan, grazie alla strategia di Arago[v], riusciamo a vedere utilizzando la vista di
rimbalzo, facendoci accendere metaforici organelli percettivi (comprensivi) al bordo della
retina (al bordo della coscienza) in una condizione extra fovica.
Lunico a vedere linvisibile strumento suonato dal
paggio sul confine destro del dipinto non potrà che essere un artista, per di
più un artista che si vantava non di cercare ma di trovare: lartista
sarà Picasso, il quale trasmetterà la sua scoperta in uno dei suoi celebri studi
sullopera di Velázquez.
Sparizione dei corpi e apparizione della loro sparizione: permane
limmagine, si sostituisce un corpo fisico con un corpo virtuale. Il riflesso di chi
non cè più in quella stanza è stato
catturato e registrato, è in memoria. Possiamo recuperare questo dato quando vogliamo.
Las Meninas, opera così difficile da comprendere
che, ben prima di Foucault aveva fatto esclamare a Théophile Gautier: Dovè il quadro?, fingendosi ingannato dal
doppio gioco della rappresentazione in esso contenuto.
Il vero
corpo dellopera infatti sta al di là, molto al di là della sua
apparenza (un autoritratto di un pittore mentre è impegnato nel suo lavoro!) ed è un
quadro nel quadro a rivelarcelo, a darcene il codice interpretativo: si tratta di una
delle due mitologie situate sulla parete di fondo, per altro copie da
originali di Rubens e di Jordaens, rappresentanti Pallade
e Aracne e Apollo e Marsia. Il soggetto che
a noi interessa è la rappresentazione dello scuoiamento di Marsia da parte di Apollo,
eseguita dal dio per vendicarsi nei riguardi di chi aveva accettato di gareggiare con lui:
un corpo perde la sua pelle, vale a dire la sua immediata apparenza per far emergere la
nascosta e più profonda verità. Dobbiamo metaforicamente fare altrettanto con il corpo
della pittura, sembra ammonirci Velázquez.
Tra i numerosi
artisti che si sono cimentati con questo tema, Tiziano è certamente colui che è
riuscito, meglio di chiunque altro, a mettere in stretta correlazione semantica il
significante e il significato di tale soggetto. Lopera di Tiziano è La punizione di Marsia (o il Marsia scorticato) della Pinacoteca del Castello di
Kromeriz, eseguito verso il 1570, nellultimo periodo della vita.
Tiziano inaugura
larte moderna proprio con questa e pochissime altre opere coeve. La pittura,
infatti, è giunta al momento in cui essa può finalmente cominciare a rappresentare se
stessa: a dipingere il dipingere, a pennellare le pennellate, a colorare il colore,
liberando la forma dalla necessità di possedere un contenuto.
Tiziano, in
questopera straordinaria, non discrimina più tra figura e sfondo, tra pieno e
vuoto, tra corpi e colori. Ununica trama pollockiana di colpi-macchie di colore
sulla superficie scabrosa di una pelle fattasi corpo e carne. Come Marsia, denudato della
sua apparenza, che rivela il suo disfacimento e linizio della sua metamorfosi,
grazie al rito di purificazione e redenzione a cui è stato sottoposto. Non a caso il
personaggio di Mida, che compare di lato, è un autoritratto del pittore in atteggiamento
malinconico.
Marsia perde la vita, ma acquista esistenza
eterna in quanto simulacro! La sua pelle
appesa allalbero da Apollo, che è dio della bellezza, del canto e, soprattutto,
della luce, risulta essere, pertanto, unimmagine, un ritratto, o, per meglio dire, una foto-grafia, una sotttile pellicola di luce e ombra
(dobbiamo a Wendell Holmes questa fulminante intuizione[vi]).
Witkin, Las Meninas. New Mexico,
1987.
In questa seicentesca
macchina della luce, in questo gigantesco set fotografico ante litteram, che è per
lappunto il quadro di Velázquez, tutto appare pensato in funzione di uno spettatore
ideale: è lo spettatore consapevole, infatti, che viene a trovarsi nel mezzo
del riflesso che intercorre tra la pittura e la realtà, nellinterspazio compreso
tra il tempo della pittura e il tempo dellevento di cui si dà rappresentazione.
Un artista americano,
Witkin, che usa la macchina fotografica, ha ricostruito a suo modo, nella dimensione
orrorifica che gli è congeniale, il set utilizzato da Velázquez. Nellopera,
intitolata Las Meninas. New Mexico, 1987,
lunica porzione della rappresentazione di Velázquez rimasta intatta è proprio lo
specchio con il suo doppio ritratto regale. Tutto il resto dellopera è piena di
riferimenti colti: il Picasso di Guernica, il
Dalì del tempo-orologio; il Mirò più lunare, tre dipinti religiosi di Velázquez.
Witkin cita, tra
laltro, una sua stessa opera (The Woman on a
Table, dello stesso anno) nella figura sostitutiva dellinfanta, una donna con i
moncherini appoggiata sopra il traliccio di vimini che costituisce lintelaiatura
della gonna, un meccanismo metaforico che sarà ripreso di lì a poco dallartista
canadese Jana Sterbak in Tèlècommande II. Remote
Control II (1989).
Anche nellopera
fotografica di Witkin la doppia icona dei monarchi diventa centrale e, in quanto citazione
rispettosa, ancor più fantasmatica. Essi si sono allontanati per sempre dal luogo della
rappresentazione, eppure sono per sempre al centro del dipinto; sono scomparsi, eppure
sono presenti con tutta la loro potenza simbolica altrimenti irrapresentabile, persino al
di là del loro tempo.
Non a caso questo
concettuale riflesso, contaminandosi con una logica magrittiana, giunge fino
allopera forse più intrigante e complessa dellartista italiano Giulio
Paolini, il Giovane che guarda Lorenzo Lotto
(1967), una semplice riproduzione in bianco e nero di un intenso piccolo
ritratto realizzato dal Lotto (Giovanetto,
1506 circa, agli Uffizi).
Anche in questo caso si
tratta di un doppio riflesso: il giovane era
di fronte al pittore. Quellevento, per quanto non rappresentato, è presente. Il personaggio ritratto, guardando
davanti a sè, sostituisce il pittore che gli ha dato la vita con lo spettatore che gli
dà senso. Limmagine elaborata da Paolini è ulteriormente caricata semanticamente
per il fatto di essere fotografica: al cospetto del fotografo la pipa è sempre una pipa,
il soggetto è sempre quel soggetto. La fotografia (per quanto difficile sia il metterla a
fuoco ...) è tautologica.
L’effetto
provocato da quest’opera concettuale appartiene alla stessa sfera di emozioni
indotte dalla visione di una celebre fotografia, acutamente commentata da Ronald
Barthes nel suo saggio sulla Camera chiara e recentemente utilizzata come
figura ricorrente (citando correttamente anche lo stesso commento di Barthes)
nel film di Bornedal Nightwatch (1997). Si tratta del ritratto frontale di un giovane ammanettato, in attesa di essere giustiziato. Barthes ci
consegna, commentandola, unindelebile e lapidaria riflessione: È morto e sta
per morire.[vii]